Il nostro “caffè” e la verità sul lavoro agile

Quali veterani dello smart working, noi di Vitesse ne conosciamo pregi e limiti: funziona davvero, purchè tutti abbiano ben presente che è il risultato a dettare legge

Il tema è caldo, se è vero che presto vedremo una serie televisiva con protagonisti alcuni smart workers: forse non avrà lo stesso successo di Suburra (dove sempre di lavoro si tratta, ma più che smart è dirty, anzi very dirty, molto sporco), tuttavia ci offrirà uno spaccato di come cambiano il mondo e le abitudini, in attesa di scoprire se dopo il Covid le cose torneranno come prima, probabilmente no.

Per noi il prima era già così. Sarà per questo che l’argomento ci è caro, infatti ne abbiamo già parlato nel nostro blog ad aprile, illustrando le buone ragioni per praticarlo, e ancora a luglio con una panoramica degli strumenti per farlo meglio.

C’è chi grida al miracolo per quanto negli ultimi nove mesi ha scoperto si possa fare con il cosiddetto lavoro agile. Noi che lo pratichiamo da dieci anni (quasi) sappiamo da tempo che lontano e vicino sono avverbi ingannevoli. Si può essere vicini e lontanissimi, oppure l’esatto contrario.

Prendiamo il “Caffè Vitesse” (no, non abbiamo cambiato mestiere...). Il caffè del mattino è una videochiamata durante la quale il nostro team di lavoro fa ogni giorno tre cose importanti: si scambia il buongiorno, si guarda negli occhi, si confronta sugli impegni quotidiani. Fateci caso, in molti uffici “tradizionali” nulla di tutto questo avviene con regolarità.

Sociologi e osservatori ci bombardano di cifre per metterci tranquilli. Il telelavoro, solo in Italia, ci risparmia ogni giorno tremila tonnellate di CO2, 7000 chili di ossido di azoto e 600 di polveri sottili, dunque fa bene alla nostra salute. A meno che, nella giornata di lavoro domestico, non facciate man bassa di patatine e nutella: in tal caso, le prossime analisi vi diranno la cruda verità.

Ovviamente si gestisce meglio il tempo, si conciliano finalmente le esigenze della vita professionale e di quella privata: che poi in un attico di 200 mq sia più agevole che nel classico due-camere-e-cucina è pacifico, specie se il marmocchio raffreddato non è andato a scuola. Quanto ai rapporti di coppia, stressati dall’eccessiva frequentazione, non è dato sapere quali siano le conseguenze: per questo, meglio chiedere alla vicina indiscreta se ha udito piatti in frantumi.

La verità può avere sfumature diverse. Lo smart working che piace alle aziende (aumento del 90% nelle grandi, 73% nelle medie , 37% nelle piccole, 18% nelle microaziende) come ai lavoratori sembra l’equazione perfetta, ma ciò non significa che tutto vada sempre a buon fine come nei film di Walt Disney.

Lo smart working può avere le sue problematiche, basta aver voglia di andarlo a verificare. E’ divertente ad esempio registrare che il 72% dei professionisti affermano di aver aumentato la propria produttività, senza statistiche su cosa ne pensino quelli per cui lavorano.

L’unica certezza, che è poi il principale caposaldo per sposare con successo il modello del lavoro agile, è la cultura del risultato: la misura non è il tempo dedicato ma la qualità di quello che viene prodotto, l’efficienza e la puntualità nel farlo. E’ lì che a volte l’ingranaggio perfetto si inceppa.

Lontani e vicinissimi, appunto: l’occhio esperto vede chiaramente se chi lavora da remoto ha frainteso. Perché smart, ricordate, vuol dire intelligente ma anche furbo. C’è una brutta differenza.

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