Le nuove regole per organizzare nel ciclismo: cosa c’è (e cosa manca)
Difficoltà notevoli e dubbi amletici agitano i sonni di chi allestisce un evento su strada: le molte disposizioni anti-Covid sono piene di buonsenso ma talvolta inapplicabili. Ecco in otto punti cosa cambia nel mondo delle corse, anche se il “come” non è sempre chiaro
All’inizio fu il Covid, e lo sport – come molti altri settori produttivi, perché tale è – entrò nel caos più totale. Poi per fortuna l’emergenza è terminata, è cominciata la cosiddetta fase 2 all’insegna della prudenza e di un assillante pensiero incombente: come rendere possibile la ripresa delle attività, dunque – rimanendo nello sport – gli eventi, gli allenamenti e quant’altro, la fase 3.
Alla fine, chi prima chi dopo, la giostra è ripartita lasciando dietro di sé – era inevitabile – una scia interminabile di documenti, DPCM, disposizioni, protocolli, disciplinari e chi più ne ha più ne metta. A norma e regola, ogni organizzatore che si rispetti dovrebbe mettersi di santa pazienza a studiare tutta questa mole di documenti provando a capirci qualcosa. Perché tra l’altro alcuni eventi ricadono sotto l’egida di soggetti diversi: la federazione internazionale dispone, quella nazionale aggiunge il suo punto di vista in armonia con le norme governative del Paese, gli enti locali personalizzano sulla base delle sensibilità del luogo. Un bell’intreccio.
Difficile orientarsi, in tutta franchezza. Proviamo a dare una mano sintetizzando, in otto punti, le cose più importanti che nel ciclismo non saranno più come prima.
COSA CAMBIA PER GLI ORGANIZZATORI DI CORSE CICLISTICHE
1. Le squadre all’interno dell’evento dovrebbero teoricamente rappresentare un mondo a sé, quella che la UCI ha definito “bolla”: quindi non venire a contatto diretto con il pubblico e limitare al minimo indispensabile quello con gli addetti ai lavori.
2. All’interno degli alberghi, gli atleti ed il personale di un team non potrebbero incrociarsi con altre persone e neanche con altri team. Quindi una squadra su ogni piano e sale riservate per i pasti e la prima colazione.
3. Al raduno di partenza niente più foglio firma: per qualsiasi altra attività prevista, gli atleti di un team dovrebbero spostarsi in blocco e non in ordine sparso.
4. All’arrivo intorno al palco delle premiazioni presenze ridotte al minimo indispensabile: il vincitore farebbe la flash interview per le televisioni e null’altro, poi salirebbe sul palco per una premiazione essenziale, senza miss e senza autorità. Il leader della classifica non farebbe la vestizione della maglia, avendola già indosso quando appare sul palco.
5. I fotografi rimarrebbero sotto stretto controllo, senza contatto fisico tra loro e tanto meno con gli atleti. Inevitabile il contingentamento, in pratica un numero ridottissimo di fotografi ammessi e poi obbligati a passare le immagini anche ai loro colleghi.
6. Le conferenze stampa dovrebbero tenersi in luoghi asettici dove non ci sia assembramento: difficile pensare a soluzioni diverse dalla videoconferenza in luogo del tradizionale incontro diretto.
7. Il pubblico sulle strade: partendo dal famoso ossimoro delle “corse a porte chiuse” (c’è stata una ministra che voleva persino imporlo al Tour de France) per fortuna superato, resta l’esigenza di evitare la calca e rispettare il distanziamento tra le persone oltre che – come detto – zero contatti con gli atleti.
8. Lo staff organizzativo: è noto come per le squadre esista un protocollo che prevede controlli e tamponi, in teoria qualcosa di simile andrebbe fatto per tutte le altre categorie di accreditati, seppur con un ampio ricorso all’autocertificazione oltre ai soliti accorgimenti – controllo temperatura, sanificazione, mascherina – negli ambienti chiusi.
Basta poco per accorgersi che il ciclismo dal vivo rischia di diventare una cosa diversa e che chi allestirà gli eventi dovrà misurarsi con un impegno molto più complesso e costi in rialzo. Impossibile o ampiamente sconsigliabile ogni improvvisazione.
Andando nel pratico, rimane sulla testa degli organizzatori qualche ulteriore spada di Damocle. Ad esempio:
- se alla partenza le squadre con i loro mezzi debbono stazionare in un’area riservata (zona palco firma e zona parcheggio mezzi), considerando che non sempre è possibile concentrare il tutto in uno spazio compatto e che i corridori vanno tenuti comunque a distanza dal pubblico, quanti chilometri di transenne bisogna metter giù?
- stesso tema all’arrivo, una volta tagliato il traguardo, il corridore in bici deve raggiungere i mezzi della squadra, spesso posteggiati non vicinissimo. Nel tratto che intercorre, chi lo protegge dallo spettatore che vuole fare un selfie?
- sia in partenza che in arrivo, cartelli ovunque, speaker che si produrranno in verbosi richiami alla mascherina e al distanziamento sociale. Ma chi controlla? In un affollato arrivo o lungo la salita di un tappone del Giro, o di una grande classica, ci vorrebbe un esercito di steward per tenere tutti a bada…
- niente più foglio firma, ce ne faremo una ragione, in fondo era una formalità, mentre le squadre e gli atleti verranno comunque presentati al pubblico. Tassativo che stiano a un metro uno dall’altro, dicono le disposizioni: ma così ci vuole un palco grande come quello della Scala di Milano…
- nominare un responsabile Covid, giusto. Nominare un comitato anti-contagio, anche questo ci sta. Ma quale è giuridicamente parlando il grado di responsabilità che queste persone (siano essi medici, infermieri o volontari) devono prendersi in carico? E fino a che punto il loro ruolo di controllo manleva l’organizzatore da possibili conseguenze in caso di positività?
Gli sport di strada, chiaramente, pagano un prezzo più salato sebbene i problemi ci siano per tutti, anche per gli sport di palestra che teoricamente sarebbero i più gestibili. Prova ne sia una recente esternazione sul tema di Julio Velasco, guru della pallavolo azzurra, in tema Covid: “Sono stanco di ascoltare e di leggere cose che non è possibile fare”.
Tutto considerato, ci sono ragionevoli timori che a qualche organizzatore passerà la voglia: di leggere tutti i faldoni, e dunque di mettersi in gioco. La speranza è che quando le corse ricominceranno (e ormai ci siamo, quasi) le soluzioni più logiche e più pratiche vengano a galla da sé. In fondo nel ciclismo è sempre stato così: l’ultima risposta tocca alla strada.